Il Mito di Orfeo ed Euridice

Non si sarebbe dovuto girare a guardarla. Ma l’amore, e non certo la curiosità o il desiderio di ribellarsi ad un ordine ricevuto, lo spinge a volgersi indietro e a violare il divieto degli dei. E’ il mito di Orfeo ed Euridice, la coppia che le divinità puniscono per due volte, in modo incomprensibile. La loro storia, sembra, infatti, l’esemplificazione di una contraddizione. Di un’ingiustizia. Orfeo è l’aedo che partecipa alla spedizioni degli Argonauti (alla conquista del vello d’oro, ndr) e quando la nave Argo giunge vicino l’isola delle Sirene, egli vince con la musica magica della sua cetra, la dolcezza del loro canto. Così gli Argonauti non cedono alle loro insidie.

Ma del musico si ricorda soprattutto la tragedia d’amore. E nel nome sembra esserci scritto il suo destino. Orfeo significa infatti “oscurità”. E’ dalle tenebre che cerca di riprendere l’amata Euridice, figlia di Nereo e di Doride. Ma il loro amore non era destinato a durare a lungo, per volere degli dei. Della bella Euridice si innamora Aristeo, che cerca di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mette a correre, ma ha la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell’erba che la morsica, provocandole la morte istantanea. Impazzito dal dolore, Orfeo decide di scendere nell’Ade per cercare di strappare l’unico amore della sua vita al regno dei morti.

Convince Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige e circondato da anime dannate che tentano in tutti i modi di ghermirlo, giunge alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo inizia a cantare la sua disperazione e solitudine e nel suo canto mette tanta abilità e tutto il suo dolore. Riesce a sciogliere i signori degli inferi. Le terribili Erinni (divinità infernali) piangono. La ruota di Issione si ferma ed i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non hanno il coraggio di continuare nel loro macabro compito.

Anche Tantalo dimentica la sua sete e per la prima volta nell’oltretomba si conosce la pietà come narra Ovidio nella Metamorfosi (X, 41-60). Ad Orfeo viene concesso di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra non si volti a guardarla in viso, fino all’arrivo sulla Terra, al sole. Si chiede, dunque, ad Orfeo di smettere di essere amante per ritrovare la sua amata. “Se Orfeo vorrà recuperare Euridice – spiega Umberto Curi, filosofo, nel suo libro Miti d’amore (Bompiani) – dovrà perderla. E recuperarla solo diventando ombra, cioè dopo la sua morte. Mai Orfeo potrà ricondurre alla luce Euridice, senza perderla nelle tenebre degli Inferi. Mai egli potrà salvare la sua sposa, senza insieme condannarla” .

Ma vediamo perché. Felice e sempre più innamorato, Orfeo prende così per mano la sua sposa e inizia il suo cammino verso la luce. Ma durante il viaggio è colto da un sospetto. Pensando di condurre per mano un’ombra e non Euridice, dimenticando così, la promessa fatta, si volta a guardarla. Ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posano sul suo volto, Euridice svansce ed Orfeo assiste impotente alla sua morte per la seconda volta. Invano Orfeo per sette giorni cerca di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore degli inferi, ma questi per tutta risposta lo ricaccia alla luce della vita. Orfeo allora si rifugia sul monte Rodope, in Tracia, trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione.

Riceve solo uomini e ragazzi che istruisce all’astinenza e sull’origine del mondo e degli dei. Molte donne tentano di catturare il suo cuore e tra queste alcune Baccanti. Queste ultime, irate dalla sua indifferenza e istigate da Dioniso per la mancanza di devozione che Orfeo ha nei suoi confronti, decidono di ucciderlo durante un’orgia bacchica. Arrivato il momento stabilito, si scagliano contro di lui con furia selvaggia, facendolo a pezzi e spargendo le sue membra per la campagna. Gettano la testa nell’ Ebro Le pietre, le selve, gli uccelli piangono la morte del meraviglioso cantore e tutte le ninfe indossano una veste nera in segno di lutto. Le Muse piangenti raccolgono le membra di Orfeo e le seppelliscono ai piedi del monte Olimpo.

Poiché il delitto delle Baccanti é rimasto impunito, gli dei colpiscono la Tracia con una terribile pestilenza. L’oracolo, consultato dalla popolazione su come porre fine a tanta tragedia, risponde che per farla cessare, é necessario ricercare la testa di Orfeo e rendere al cantore gli onori funebri. Il suo capo reciso viene così trovato da un pescatore presso la foce del Melete e viene deposto nella grotta di Antissa. In quel luogo la testa di Orfeo inizia a profetizzare finché Apollo, si reca alla grotta e gridò alla teata di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tace per sempre. “Apparentemente unica- scrive Curi- nella sua extra-ordinarietà e nella sua irripetibilità l’impresa di Orfeo ripete in realtà la vicenda ordinaria di ogni storia d’amore, per sua essenza esposta allo scacco, in quanto tensione verso una pienezza inattingibile. Non vi è arte che possa strappare definitivamente l’eros dalla sua indiscutibile connessione con la morte, thanatos.

Nulla meglio dell’amore può esibire il fondamento stesso della condizione umana, il suo non poter essere altro che speranza, e dunque il suo disperare di una compiuta salvezza, il suo costante sprofondare nei limiti, dai quali vorrebbe evadere”. Orfeo aveva tentato di spezzare i limiti, sprofondare nell’oscurità, l’extraordinario, per riemergere “illuminato” di quella conoscenza che solo l’amore può dare.

Ma invano. “Tragico- continua il filosofo- non è soltanto il destino particolare del cantore, per il quale non si può immaginare alcuna composizione dialettica, in quanto è conflitto, per il quale non è concepibile alcuna definitiva pacificazione. Dagli oscuri recessi del Tartaro nessuno può sperare di uscire, portando con sé la vita.

Ciò che è concesso, non è il chiarore abbagliante di una luce senza ombre, ma quell’incerto chiaroscuro, nel quale ciascuno deve cercare la propria strada, senza essere assistito da altro, che non sia la speranza”.