L’amore tecnologico

Usare tanto i mezzi pubblici può non essere solo motivo di stress e accumulo mattutino di facce ingrugnite e tristi: si può cercare di farlo diventare un osservatorio di abitudini e comportamenti. Misteriosamente la mia misantropia non si disgiunge dalla tendenza alla curiosità nei confronti dei gesti e delle parole altrui. E negli ultimi giorni, questo mio spirito un po’ “guardone” mi ha stimolato una riflessione sulle parole d’amore nell’epoca del telefonino.

Che stia inesorabilmente scivolando oltre il “mezzo del cammin di nostra vita” lo dimostra la tendenza spiccata a recuperare e a valorizzare nostalgicamente gesti e oggetti di un tempo lontano. Nel film Marrakesh Express, uno dei protagonisti dice: “Siamo l’ultima generazione con i ricordi in bianco e nero.” Ultimamente mi sono scoperta a pensare che la mia è l’ultima generazione ad aver usato le cabine telefoniche. E fa una certa impressione realizzare di essere tra gli ultimi non solo ad aver usato un oggetto che, quasi, non esiste più; ma di aver vissuto tutta una simbologia ed una gestualità legate ad un oggetto che non esiste più. Le telefonate d’amore che non si potevano fare da casa, parole che dovevano restare intime e riservate, trovavano in quel bozzolo di vetro una capsula lunare che ci difendeva dal mondo; una ritualità che cominciava dalla ricerca dei gettoni alla chiusura, alle nostre spalle, di quella porta di vetro.

E non contenti di quell’isolamento, anche il linguaggio corporeo ci accompagnava in quell’atto privato: ci si abbozzolava ancora di più su sé stessi, si proteggeva la cornetta come un oggetto tanto più prezioso quanto più ci facevano battere il cuore le cose che dicevamo e che ascoltavamo. Cose che dicevamo e ascoltavamo da soli, soli con la persona dall’altra parte della cornetta. Non volevamo un pubblico e, soprattutto non avevamo bisogno di un pubblico. Al massimo quei due amici o amiche che facevano azione di disturbo all’esterno ma che facevano parte della ristretta cerchia dei testimoni della nostra goffaggine o del nostro ardimento.

Cosa ne è di tutto questo con i telefonini? Non voglio disconoscerne l’utilità e la comodità in tante occasioni, non sono così reazionaria. Mi chiedo solo se, oltre ad un mezzo per essere sempre reperibili non siano anche un mezzo per rendere visibile agli altri la nostra reperibilità, la nostra intimità e le nostre parole d’amore.

“Passo io a fare la spesa, così ci prepariamo una cenetta”

“Tra un’ora sono a casa. Ho una gran voglia di vederti”

“Sono stata bene ieri sera. È stato bellissimo”

Parole e frasi spesso non sussurrate ma urlate per sovrapporsi al rumore di fondo. Urla su urla, spettacolarizzazione di un sentimento e della semplicità dei suoi gesti. Perché tutto deve diventare visibile oltre che udibile? Perché il sorriso un po’ ebete che a tutti noi si dipinge in viso quando parliamo con una persona speciale, deve essere condiviso con i vicini di treno o di metropolitana? Beh in fondo è così facile usare il telefonino, così immediato: lo tiriamo fuori dalla tasca, componiamo un numero e dove siamo siamo. Cosa c’è di male nel dire davanti ad una decina di persone: “Ti riempirei di baci ora. Vorrei abbracciarti.”? Non c’è nulla di male infatti. Non sono né bigotta né bacchettona, rifletto solo sull’importanza dei rituali, sulla bellezza di essere soli a dire parole d’amore.

In certi casi è come se il telefonino avesse trasformato tutto in una sorta di tele-visione; non intesa come elettrodomestico ma come visione a distanza, ravvicinata, dell’intimità altrui e la messa in pasto dell’intimità nostra. L’amore fa rima con pudore, concedetemi questa banalità. Ma concedetemi anche di pensare che, talvolta, le cose più che banali sono banalizzate. E la differenza non è da poco. E rivendico anche la dignità della bugia, quella dignità un po’ guascona ed elettrizzante che ci induceva a provare un po’ di vergogna nel dirla e, quindi, a cercare di nasconderci quando la si diceva. E invece quell’uomo che in quel negozio dice alla moglie: “Amore sono ancora in riunione. Ne avrò per un bel po’” senza preoccuparsi di abbassare la voce anzi, cercando con gli occhi la mia complicità chiesta con un sorrisino d’intesa quasi a sottolineare la leggerezza della cosa, cosa fa se non umiliare sé stesso? Ma non è colpa del telefonino; in fondo esso è solo un oggetto. Ciò che conta è il contesto spazio-temporale in cui lo si usa. È il modo in cui si permette che sia solo un mezzo appunto, un veicolo per le nostre parole, senza permettergli di diventare il fine delle nostre parole.

La possibilità di parlare da qualunque posto, potendo dire di essere altrove forse ci avrà reso più liberi, ma non sono sicura sia stato un vantaggio per la dinamica del “discorso amoroso”. Quelle fitte di dolore, quei sussulti di piacere che ci provocano le parole della persona amata non possono, e non dovrebbero, essere ascoltati in qualunque posto. I “non luoghi” non sono solo un concetto urbanistico e sociale; rischiano anche di diventare un concetto linguistico, un contesto indifferenziato in cui si pronunciano e ascoltano parole che dovrebbero restare intime.

Per San Valentino non vorrei regalare alla persona che amo un telefonino per poterla sentire in ogni istante, nell’illusione di sapere sempre dov’è (illusione appunto, visto quanto ci permette il telefonino stesso di mentire sulla nostra ubicazione). Vorrei regalare una telefonata da una cabina telefonica. E quel ragazzo che piangeva sull’autobus continuando a ripetere: “Hai ragione. Allora non ci vediamo più” ha tratto forse conforto dalla condivisione pubblica del proprio dolore? O avrebbe beneficiato di un rifugio in vetro, trasparente ma isolante? O poteva, semplicemente, non aspettare di essere circondato da altre persone per fare quella telefonata? I “frammenti di un discorso amoroso” meritano ben altra scenografia.

E la cabina telefonica mi sembrava un bel luogo, così cinematografica, così fisica. Sì, era quasi la scena di un film, raggiungerla di corsa, sotto un acquazzone, entrarci ed essere circondati dal vapore acqueo sprigionato dai nostri vestiti inzuppati; oppure grondare sudore per il caldo che non sconfiggeva la nostra voglia, il nostro bisogno di dire certe cose. Le parole d’amore sono importanti. Non vanno viste e pronunciate a beneficio del mondo.

A cura di Geraldine Meyer